Ai giovani non serve la prestazione
di Alessandro D’Avenia
Sentirsi in pace anche per quel che si è, non solo per ciò che si fa…
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Un filosofo contemporaneo ha visto in Prometeo l’archetipo della società di oggi, composta da uomini stanchi, che hanno creato una vita che li incatena e divora continuamente. Il loro fegato ricresce ogni giorno, pronto per essere nuovamente distrutto dal meccanismo della prestazione. Per Prometeo non c’è misericordia: «La società del XXI secolo è una società della prestazione. I suoi stessi cittadini sono “soggetti di prestazione”. Sono imprenditori di se stessi». (Byung-Chul Han, La società della stanchezza). La tecnica sostituisce ciò che è umano nell’uomo.
La stanchezza che caratterizza la società occidentale colpisce in modo particolare i giovani, ora disarmati di fronte ad una vita che chiede loro di essere oggetto di prestazioni e non soggetto di possibilità (adolescenza è l’irruzione di ciò che è propriamente umano, è l’assunzione di un destino: la necessità e l’entusiasmo di creare a partire da ciò che si è) e che si rifugiano nelle loro stanze come gli hikikomori o sono costretti a far regredire il loro corpo e il loro spirito a larva anoressica; ora armati a vuoto con l’unico scopo di distruggere (a maggior potenza creatrice corrisponde sempre maggiore estensione del caos), con violenza sul corpo altrui, o sul proprio, ferito per sapere di aver sangue e vita dentro di sé. Regressione fetale da un lato, esplosione kamikaze dall’altro: in entrambi i casi si mostra una forza sorprendente, di per sé creativa, che può impegnarsi a fini distruttivi, fino all’autodistruzione. L’assenza di misericordia trasforma l’amore di sé in amore della morte.
La prestazione è il contrario della misericordia, la capacità di interiorizzare, negli occhi dell’altro, la propria vita e accettarla per quello che è: un limite capace di superarsi, un limite capace di creare e di essere nuovo inizio, un inedito darsi. I giovani di oggi cercano, come ogni generazione, questa misericordia nella generazione precedente: la possibilità di riceversi così come sono. Ciò si impara primariamente in famiglia, la cui essenza è avere almeno un posto al mondo in cui si è accettati (se non si è frutto di un menu, e quindi oggetto di attesa di prestazione) e si accetta l’altro per come viene ed è e non per quello che può dare o fare. Un posto in cui qualcuno possa dire all’altro “io darei la vita per te, come sei, adesso”. E quell’adesso è fondamentale, ed è misericordia.
Invece anche la famiglia, più fragile, diventa spesso luogo di prestazione: il figlio è caricato di tutte le attese dei genitori, che crollano se il figlio fallisce, perché la loro realizzazione non è primariamente nell’amore della coppia, ma nelle aspettative sul bambino (genitori che si ribellano per un cattivo voto del figlio, ma d’altronde la scuola è spesso ridotta a prestazione e voti, o si scannano durante le partite di calcio dei bambini). Se la felicità si identifica con una prestazione efficace, l’insuccesso è bandito. Invece la crescita e la maturità sono tessute di fallimenti, attraverso i quali il giovane impara che la realtà resiste ai suoi desideri di onnipotenza narcisistica e impara a stare al mondo, introducendovi la sua novità con la pazienza e il coraggio necessari. Questo è conquistare la maturità: interiorizzare il limite, trasformando il destino in destinazione. La società della prestazione spazza via la possibilità di fallire, perché non conosce misericordia, esilia la fragilità costitutiva dell’umano, generando soggetti spesso depressi e frustrati, perché non riescono ad essere quello che occhi senza misericordia si aspettano. Il doping diventa necessario: tanti professionisti hanno bisogno di drogarsi per essere produttivi, come si dopano le piante e gli animali perché forniscano materia nuova ogni giorno per gli scaffali.
Viene meno lo stupore paziente dell’essere “così” di cose e persone, viene meno la stessa consistenza di cose e persone che hanno bisogno di tempo per darsi a conoscere. “Rispetto” e “riguardo” dicono che per avere accesso alla realtà bisogna guardarla (-spectare -guardare) con un certo distacco, più e più volte (ri-), nel tempo, senza esigere il tutto-e-subito. Tolto il ri- della misericordia rimane solo lo spettacolo (spectare) dell’eterno presente, del multitasking, dello sguardo che pretende, della prestazione che affatica e divora, come l’aquila, il fegato del giovane Prometeo, portatore di fuoco.
Non c’è spazio perché il nostro io disarmato sia e cresca, nella pazienza delle stagioni. Il corpo si trasforma in protesi da migliorare con la chirurgia, l’amore si riduce a tecnica di seduzione e di piacere, la felicità si riduce a benessere, la salvezza a sicurezza, gli altri diventano app da smartphone. Riguardo e rispetto, cioè misericordia, sono merce rara, perché non dipendono dalla tecnica che tutto può, ma da un cuore capace di accogliere la realtà, prima di aver pensato di sfruttarla.
Un giovane non guardato e amato per ciò che è e non per ciò che dovrebbe dare e fare, si stanca della sua esistenza prima ancora di cominciare il compimento, che ne segna corpo e spirito. Non impara a conoscere e amare se stesso per quello che è, quindi non trova il coraggio per essere nuovo inizio (dare e fare come conseguenza dell’essere), agisce un copione per cui non ha talento, finendo con ribellarsi (o si chiude o esplode) al continuo fallimento a cui è paradossalmente costretto. La solitudine di Prometeo potrebbe guarire, la sua ferita rimarginarsi, se ricominciassimo, anche grazie al Giubileo (che non riguarda solo i credenti) a creare uno stile di vita basato, non sulla prestazione che genera stanchezza, ma su una vita attiva nutrita da uno sguardo che sappia farci sentire in pace per quello che siamo e non solo per quello che possiamo dare/fare. Se trovassimo questo sguardo, al fegato divorato ogni giorno dalla prestazione, potremmo sostituire un cuore ogni giorno rigenerato dalla misericordia.