Il dramma di una generazione che rifiuta la fatica

di Costanza Miriano

Tra i motivi, oltre all’incapacità dei genitori di tollerare la frustrazione, il limite, la sofferenza dei propri figli, c’è anche la tecnologia che offre tutto e subito senza fatica.

Qualche tempo fa, in una gelida mattina invernale, a Perugia, ho incontrato un gruppo di ragazzini delle medie. Correvano in un bosco – come me, peraltro -, incuranti della pioggia, del freddo,degli schizzi di fango. Da madre ho avuto un sussulto, poi mi sono ricordata che per tutta l’adolescenza, e a dire il vero per tutta la vita, l’ho fatto anche io: prendere freddo, bagnarmi, sudare, correre tra radici e rami sporgenti; le mie ginocchia piene di cicatrici lo testimoniano, ma insomma sono sopravvissuta.

Immersa in quei ricordi, quando ho visto sotto la pioggia il mio vecchio allenatore di atletica, non ho potuto fare a meno di violare il primo comandamento della corsa – mai fermarsi per nessun motivo al mondo, neanche in caso di rottura di arti -: ho dovuto abbracciarlo e scambiare due parole con lui. Così, ho avuto la conferma di ciò che vado pensando e dicendo da quando sono madre, e cioè che i ragazzi di oggi hanno una tolleranza alla fatica enormemente inferiore a quella delle precedenti generazioni. In certi momenti, a dire il vero, mi veniva il dubbio di essere vittima del disturbo che affligge un po’ tutti gli adulti di una generazione, la sindrome “aimieitempi” (aimieitempi sì che la vita era dura, aimieitempi sì che si studiava), e che a volte mi porta ad esagerare le asprezze della vita nei miei maldestri tentativi educativi (io non lasciavo mai avanzi sul piatto, io apparecchiavo e sparecchiavo sempre, io mi facevo il letto da sola: ragazzi, non è proprio esattamente vero, ma si chiamano bugie bianche).

PRESTAZIONI ATTUALI INFERIORI AL PASSATO

Però quanto mi ha detto il mio allenatore mi ha confermato, in modo concretamente misurabile, quanto dicevo. Tra i ragazzi del suo team, alla stessa età che noi avevamo trenta anni fa, le prestazioni attuali sono di molto inferiori. E il cronometro dà dati oggettivi. Lo conferma il fatto che sono stati alzati i minimi per accedere alle gare nazionali di atletica. I record mondiali, è vero, si abbassano sempre di più, ma la massa dei praticanti – sempre più sottile, almeno in Italia – a livello agonistico serio, corre in media più lentamente, salta più corto e più basso, lancia più vicino. A parte che non siamo sostenitori delle teorie di Darwin, qui comunque non si tratta di evoluzione della specie, ma semplicemente di un fatto culturale. I ragazzi sono più sedentari, hanno meno voglia di muoversi e di faticare. È un dato di fatto oggettivo, con cui fare i conti.

Le cause? Non so, probabilmente una serie di elementi. Intanto adulti troppo protettivi: il mio allenatore ci lasciava a volte in un posto nel nulla, e ci diceva di andare a un paese a venti chilometri di distanza. Superfluo ricordare che non esistevano i cellulari, né i navigatori, né gli integratori salini. Si chiedeva la strada al contadino (senza fermarsi, urlando di corsa), e se era molto caldo magari gli si domandava il permesso di bere dal tubo con cui annaffiava. Se cadevi ti rialzavi e andavi avanti per rimanere attaccata al gruppo, sennò eri persa. I nostri genitori neanche sapevano dove fossimo, e l’allenatore ci aspettava all’arrivo col cronometro (e comunque ci avevamo sempre messo troppo tempo). Il criterio per stabilire se ti fossi allenato bene o no era il vomito: se ne sentivi lo stimolo, allora probabilmente ti eri allenato abbastanza. Ai miei interessava solo che mantenessi alta la media a scuola, non si preoccupavano troppo se prendessi freddo o caldo: finché ero in salute, significava che potevo farcela.

L’ILLUSIONE DELLA TECNICA E DELL’IPERCONTROLLO

I genitori di oggi ipercontrollano la salute e ogni movimento dei figli: tutto deve essere vagliato dal loro filtro, nell’illusione che la tecnica, l’informazione, il benessere economico possano proteggere da tutto questi bambini e poi ragazzi, sin dal grembo materno, con gravidanze continuamente esaminate (salvo eliminare i bambini se malati). Lo stesso atteggiamento protettivo i genitori ce lo hanno nei confronti della scuola: il professore è il nemico, non l’alleato, gli ostacoli vanno rimossi, la fatica evitata. Le interrogazioni vengono quasi sempre programmate, in modo che i ragazzi, se lo vogliono possano studiare solo per quel giorno, o comunque limitare al massimo la fatica. A una mia protesta una professoressa mi ha spiegato che è costretta a farlo pur di avere qualcuno all’interrogazione: l’alternativa è che tutti si giustifichino. “Le prometto che se lei rifiuta le giustificazioni e mette 2 a mio figlio io non protesto. Rimandate, bocciate se necessario. Io sono con voi qualunque cosa decidiate di fare”. La prof mi ha guardato come si guarda un elefante verde in una sala professori.

Quali sono le cause di questo cambiamento epocale? Oltre all’incapacità dei genitori di imporre o di tollerare la fatica, la frustrazione, il limite, anche la sofferenza a volte dei propri figli, aggiungerei anche altri elementi, come il modello di consumo nel quale viviamo immersi, e la cultura che ne consegue (suscitare bisogni falsi e convincerci che è necessario soddisfarli tutti, anche velocemente), e l’enorme peso che ha la tecnologia nelle nostre vite, e molto di più in quelle dei nostri figli, nativi digitali. Insomma, è sempre più difficile scollarli dai divani, dai letti, da tutte le superfici orizzontali sulle quali istintivamente si sdraierebbero se potessero, se attraverso quel coso che hanno in mano possono vedere di tutto, leggere, comunicare, scambiare una mole di informazioni che le precedenti generazioni neanche immaginavano pensabile.

UN PROBLEMA DI SENSO

Ma al fondo di tutto, il problema è un problema di senso. È il modello di uomo che ci viene proposto da tutti i canali che formano le nostre coscienze: la cultura, l’informazione, la scuola, l’intrattenimento, la comunicazione, e anche, dobbiamo dirlo, parte della Chiesa. Siamo immersi in una cultura che considera l’uomo come non bisognoso di cura, redenzione, salvezza. È la cultura che considera come degni di approvazione e giustificati tutti i moti interiori, viviamo nella palude, dove tutto è molle, modificabile, plasmabile, contrattabile, aggiustabile. La fatica è un’obiezione: se ti fa fatica fare una cosa, non è buona per te. Mentre per secoli anche la letteratura ci ha consegnato le immagini degli eroi che facevano viaggi pericolosi, affrontavano imprese, scommettevano – e a volte perdevano – la vita in prove rischiose, pur di ottenere l’obiettivo, oggi i libri, i film, le storie che popolano il nostro immaginario raccontano piccoli piaceri, piccole soddisfazioni, comode cucce calde che ci siamo aggiustati per vivere. Purtroppo anche in tante realtà della Chiesa si propone un Cristo amico che ti dà una pacca sulla spalla, e sostanzialmente ratifica la tua vita e le tue scelte. Dimenticando che la vita di un cristiano è un combattimento, una milizia nella quale si suda sangue anche, a volte. Anzi, se non succede, se non ti giochi tutto, vuol dire che Cristo non è tutto per te. Un combattimento nel quale il nemico è prima di tutto interiore: è il nostro peccato, che viene dalla nostra responsabilità e dalla ferita del peccato originale. So che sono discorsi fuori moda, che a certe orecchie suonano assurdi come lasciar correre dei ragazzini nel fango sotto la pioggia gelata, ma in gioco c’è la vita eterna, e se non combattiamo più ci prendiamo molto più che una febbriciattola (che poi a correre non viene mai, fidatevi!).