Se vuoi andare in gita, lascia a casa lo smartphone

Paola BellettiPaola Belletti

n aut aut, in alcune scuole già praticato, consigliato da Paolo Crepet come intervento necessario per prevenire anche il cyberbullismo.

No. Non è un articolo sul “dove andremo a finire”. Non è l’ennesimo arrangiamento del tema “non ci sono più i giovani di una volta”.

È un racconto, breve. La morale non ci sarà perché non è una favola. Non sarà nel testo ma occorrerà torni a risvegliarsi in tante teste. Dei giovani? Sì, certo. Anche. Ma soprattutto nelle nostre. Di quelli che magari parlano ancora di sé come di ragazzi anche se abbiamo già 35, 40 anni. Degli adulti, degli educatori. Non per competenza, ma per stato.

Siamo adulti, educhiamo. Stiamo educando, anche con il nostro non far nulla in proposito o restando in quella interminabile fase incoativa. Adolesco, adolescere. Stare per diventare adulti. Ecco, ora basta. Ora abbiamo bisogno di participi passati, di cose compiute e di metterci a fare i grandi.

E per esempio di dire al figlio -lui sì a pieno diritto adolescente– che se va in gita lo smartphone lo lascia a casa. “Ma mamma tutti gli altri ce l’hanno!”
“Non importa, tu no. Loro vedranno lo schermo e tu piazza S. Marco in diretta, dai tuoi occhi. Non da Facebook”.

Ecco, ho impostato, pur avendo dichiarato il contrario, la modalità “sermoncino digitale”.

Volevo invece farvi conoscere innanzitutto la proposta dello psichiatra, sociologo e scrittore Paolo Crepet nella quale mi sono imbattuta qualche tempo fa: divieto di portare i cellulari in gita, meglio ancora vietarli a scuola. Del tutto.

“Ci sono istituti che già lo fanno”, riferisce. E la cosa funziona. Una maggiore severità disciplinare, soprattutto su questo tema, sarà già nel medio periodo premiata dalla scelta dei genitori, ipotizza con ragionevole approssimazione.

Racconta di una scena vista coi suoi occhi, a Venezia: una lunga comitiva di ragazzi in gita, su e giù per ponti, campi e calli, con la testa reclinata sullo schermo e il passo incerto e un po’ ebete di chi non guarda dove va. E il professore che urlava “Buca!”, “Gradino!”, …

No, davvero. Tutti i distinguo che tentiamo di fare noi genitori, per noi stessi e i nostri figli, dovrebbero saltare di fronte a queste scene. Spesso nemmeno noi adulti sappiamo regolarci e temperare l’uso dello smartphone. Una sbirciata a Facebook, un retweet qua, un commento là. E fammi vedere quel post così ironico se sta crescendo coi like! Devo imparare a usare Instagram meglio perché è il social del momento, mi hanno detto…

E le chat. Le sottochat. Le controchat. I video. Quelli segreti e quelli subito virali. E il mondo intorno, quello materiale, con gli spigoli, le buche per le strade, con le facce vere, (quelle che vedendole da vicino forse non avresti il coraggio di apostrofare con quel commento acido) così  si allontana.

Il mondo, la realtà così spesso scomoda e poco accomodante, si riducono quasi ad un porta smartphone. Un supporto, sfondo per i nostri selfies.

«Parliamoci chiaro: non agire sull’uso dei cellulari a scuola significa rifiutare di prevenire le conseguenze più spiacevoli. Lasciare che i più giovani utilizzino il cellulare sempre, quando vogliono e come vogliono, significa che poi ci si riduce a fare i “pompieri”, a intervenire sempre cioè sull’emergenza.” Questo il commento di Paolo Crepet (su Oggi scuola) che in molte occasioni insiste sulla necessità delle regole, di divieti precisi, di un esercizio sano e “sanificante” dell’autorità.

Se si va in gita, allora, niente smartphone. Di furbi bastate voi, ragazzi.

Questo –e molto altro–  dovremmo dire ai nostri figli, agli alunni. Ma intanto si può cominciare così.

Fuori e dentro di voi c’è un mondo. La cosiddetta realtà aumentata è una bugia; perchè prima è stata ridotta (dice Fabrice Hadjadj). È l’uomo, come nessun’altra creatura, che è una realtà enorme, incommensurabile«Anima est quodammodo omnia» (Summa Theologiae).

La virtualità, se lasciamo che occupi del tutto la nostra vita, le nostre occupazioni, se diventa il teatro principale delle nostre azioni non aumenta la realtà, ma storna noi da noi stessi e dall’altro (con conseguenze spesso tragiche, perchè l’altro non è un profilo social e prova emozioni e dolore).

E pure dalle cose belle, fuori di noi. Che ci parlerebbero davvero, di noi uomini. Perché una cattedrale, una piazza, un affresco, anche una struttura modernissima, o un telescopio, un film, un giardino, un libro, quelle sì dicono qualcosa alla mia natura umana.

Per scoprirci dobbiamo incontrare altro da noi e non sempre il nostro io nei suoi aspetti più volatili e marginali (come il comportamento d’acquisto, i gusti in fatto di moda, le scelte di mete turistiche, la musica) riscodellatoci di continuo su tutti gli strumenti dotati di monitor nei quali ci “logghiamo”.

Serve una reazione culturale, non possiamo ridurci così solo perché qualcuno della Silicon Valley ha deciso che questo è il futuro”, conclude Crepet.

Mi pare che gli si possa dare ragione. E sì, anche lo smartphone può essere considerato ammirabile come prodotto dell’ingegno umano; non prima però di aver recuperato la nostra capacità di meraviglia e avere rafforzato l’abilità di fare schermo noi, con la nostra intelligenza, il nostro senso critico, all’invasione digitale.

(State leggendo da mobile? «Buca!»)