L’arte di educare: In principio c’era la mamma
(Pino Pellegrino, Bollettino Salesiano)
La mamma è il numero uno che, messo davanti, dà valore anche agli zero che altrimenti resterebbero zero.
Ancor oggi la madre resta decisiva per l’apprendimento della grammatica della vita per ogni uomo che approda sul pianeta. Il primo capitolo della biografia di ognuno potrebbe essere intitolato come lo scrittore danese Giovanni Joergensen intitolò il capitolo iniziale della vita di don Bosco “In principio c’era la mamma”: la mamma Margherita.
La mamma è il numero uno che, messo davanti, dà valore anche agli zero che altrimenti resterebbero zero.
Tante sono le angolazioni dalle quali ci si può collocare per parlare della figura materna. Tra le tante scegliamo quella che ci pare la più importante ed urgente. Parliamo della madre in quanto esperta in amore filiale.
Intanto liberiamoci dall’idea che l’amore materno sia una dote naturale, istintiva. Ha ragione il noto pediatra Marcello Bernardi a dire a tutto tondo: «I figli non si amano perché sono i nostri figli.
i amano perché si impara ad amarli». «Amare è un’arte» sosteneva il famoso psicanalista tedesco Erich Fromm nel suo fortunato lavoro L’arte di amare.
Ebbene la madre che va a scuola per apprendere tale arte impara che vi sono amori educanti e amori devastanti.
AMORI DEVASTANTI
Amare non è strafare.
La madre che continua a sbucciare l’arancia al figlio che ha ormai sette-otto anni, forse pensa che quello sia un bel gesto d’amore. In realtà quello è un furto.
Un furto, sì, perché quando i genitori fanno quello che il figlio è in grado di fare da solo, gli rubano un pezzo di vita, gli impediscono di fare un’esperienza che lo aiuta a crescere, a maturare.
Amare non è adorare il figlio.
Mettere il bambino al centro, eleggerlo a capo famiglia, è preparare un despota domani. Anche qui falso amore. Errore da cartellino rosso.
Amare non è arrendersi al figlio.
Ormai tutti si stanno rendendo conto del fallimento della pedagogia permissiva. Un bambino senza regole e senza norme non avrà la forza per resistere quando il sole picchia forte e la vita mostra i denti.
AMORI EDUCANTI
Amare è accettare il figlio.
Accettarlo fino in fondo anche se non risponde alle nostre attese. A proposito aveva tutte le ragioni lo psichiatra austriaco Bruno Bettelheim ad ammonire: «Non puntate ad avere un figlio che piacerebbe a voi. Abbiate rispetto per quello che il bambino è».
Amare è rinunciare al possesso del figlio.
In altre parole: amare è disporsi a tagliare, via via sempre più, il cordone ombelicale. Amare è liberarsi dalla insidiosa figliolite, malattia tipica delle mamme italiane.
Amare è regalare mille attenzioni.
È accompagnare il bambino a letto, non mandarlo. È farlo sentire importante almeno due volte al giorno. È ricordarsi sempre del compleanno e dell’onomastico. È fargli una sorpresa. È aiutarlo a volersi bene.
Amare è rendersi amabili.
È questo l’aspetto più simpatico dell’amore: correggere il carattere forse permaloso, attaccabrighe, pessimista, ondivago e renderlo, per quanto possibile, vibratile, empatico, solare. Perché dal sole si impara: il sole dà, la luna prende!
BUONI CONSIGLI DAI FIGLI
- «Mia mamma dice sempre le bugie. Esempio: la sera quando vado a letto, mi dice. ‘Mi lavo i denti e poi ti faccio compagnia’ e poi non viene più. Capisco che sia stanca, ma io preferirei che mi dicesse che non ne ha voglia» (Carla, dieci anni).
- «Quando ti recito la lezione, mamma, i tuoi occhi sono sfavillanti, le tue guance si arrossano e si vedono in tuoi denti bianchi» (Mattia, nove anni).
- «La mamma mi dice sempre che non devo interrompere quando gli altri parlano. Però quando io vedo alla televisione la ‘Domenica sportiva’ e discuto con papà di sport lei ci interrompe in continuazione e a me viene il nervoso» (Claudio, undici anni).
- «Tu mamma mi piaci molto quando cerchiamo di prendere papà che ci ha fatto qualche scherzo» (Monica, sei anni).
- «A te, mamma, ho una cosa sola da dirti: che gridi troppo» (Gregory, sei anni).
- «Io mi arrabbio quando tu mamma mi dici che se nascevo femmina tu mi chiamavi Michela, poi cominci a chiamarmi Michela» (Federico, dieci anni).