Giovanni Bosco: profondamente uomo
31 gennaio 2017 Pietro Brocardo
«Tutto è umano in don Bosco – ha detto Daniel Rops – e nello stesso tempo tutto sprigiona misteriosamente una luce soprannaturale»…
«Se Dio vuol fare dei santi – scrive Bossuet – qualche cosa che sia degno di lui, bisogna che li rivolga da tutti i lati per plasmarli interamente a suo modo, e che abbia riguardo alle loro disposizioni naturali solo quel tanto che sarà necessario per non far loro violenza».
Nella santità tutto è dono di Dio, anche la risposta eroica alla sua chiamata. Ma Dio è infinitamente rispettoso della personalità dei santi e più di quanto non lasci intendere Bossuet. La sua grazia, cioè la sua azione divina in noi, attraversa la natura e la rispetta, non la limita. Di certo Dio può fare cose grandi in creature limitate. E il caso, ad esempio, di S. Giuseppe da Copertino; privo di elementari risorse umane, Dio ne ha fatto un vaso di elezione che non ha riscontro nelle raccolte dei Bollandisti. Ma i grandi capolavori della grazia sorgono normalmente in creature molto dotate, come nel caso di don Bosco, che Jorgensen definisce, non senza enfasi: «uno degli uomini più completi e più assoluti che abbia conosciuto la storia». E del resto la forte impressione riportata da Pio XI nei tre giorni trascorsi a Valdocco con il Santo (1883): «Noi l’abbiamo veduta da vicino questa figura, in una visione non breve, in una conversazione non momentanea; una magnifica figura, che l’immensa, l’insondabile umiltà non riusciva a nascondere… una figura di gran lunga dominante e trascinante: una figura completa, una di quelle anime che, per qualunque via si fosse messa, avrebbe certamente lasciato grande traccia di sé, tanto egli era magnificamente attrezzato per la vita».
Anche L. Hertling, storico riconosciuto di storia della Chiesa, associa il nome di don Bosco a quello degli spiriti umanamente più dotati: «Agostino, – scrive – Francesco, Caterina da Siena, don Bosco, vanno annoverati tra i fiori e i culmini dell’umanità». Apprezzamento non dissimile esprime recentemente C. Wackenheim: «L’apostolo Paolo, Agostino di Ippona, Francesco di Assisi, Vincenzo de’ Paoli e Giovanni Bosco furono, evidentemente, creature di eccezione sul piano delle loro risorse e qualità umane».
Ciò che di primo acchito colpiva in don Bosco era l’uomo, non il santo. Se la sua profonda unione con Dio non poteva essere oggetto diretto di osservazione, lo erano invece le sue splendide qualità umane attraversate e sublimate dalla grazia. Ed erano davvero tante; contrarie e complementari, concatenate ed armonicamente fuse tra di loro in una simbiosi misteriosa.
Di don Bosco si poteva dire infatti che era insieme: gioioso e austero, schietto e rispettoso, esatto e libero di spirito, umile e magnanimo, tenace e duttile, tradizionale e moderno, ottimista e previdente, diplomatico e sincero, povero e fa la carità, coltiva l’amicizia ma non fa preferenze, rapido nelle concezioni prudente nell’esecuzione, ama le cose fatte bene ma non è perfezionista, vede in grande ma ha il genio del concreto, audace fino alla temerità avanza con circospezione, sa farsi amico l’avversario ma non abdica ai suoi principi, dinamico non estroverso, coraggioso non temerario, volge tutto ai suoi fini ma non manipola le persone, educa prevenendo e previene educando, fugge col mondo – vuole essere all’avanguardia del progresso – ma non è del mondo.
Queste ed altre antinomie positive danno la misura della vera grandezza di don Bosco: «Per misurare l’apertura delle ali dell’aquila bisogna distenderle e notare le opposte estremità, allora si può giudicare della loro forza: lo stesso avviene delle virtù dei santi, delle quali non si può valutare la grandezza che opponendole tra di loro» (H. Petitot).
Le antinomie positive che stagliano la figura umana di don Bosco, trasfigurate dalla carità pastorale, sono uno splendido accordo di natura e di grazia. La sua ricchezza umana, è stato rilevato opportunamente, era così integrata nella santità, che ne diventava quasi il sacramento, e i doni di grazia, quando si manifestavano, erano come una glorificazione della sua umanità.
La natura è anzitutto la forma che Dio ha dato alla sua grazia e, quando l’uomo corrisponde, risplende anche all’esterno. «Tutto è umano in don Bosco – ha detto Daniel Rops – e nello stesso tempo tutto sprigiona misteriosamente una luce soprannaturale».
A questo proposito non possiamo ignorare un’efficace pagina scritta da Mons. G. De Luca: «Don Giovanni Bosco, non soltanto come san Giovanni Bosco merita amore e studio, ma come Giovanni Bosco: e cioè come uomo tra gli uomini. Alcune volte mi viene in mente di scrivere la vita di don Bosco – tutti i santi sono rari; ma santi consimili, anche profanamente mirabili, sono rarissimi – scrivere, dicevo, la vita di don Bosco in termini e in modo che la possano comprendere e ammirare anche gli increduli. Scrivere la vita d’un santo così che invogli a leggere chi non crede nella santità. Far vedere a costoro come in realtà don Bosco, anche a chi ignora e vuole ignorare la vita interiore e la grazia, anche per chi non scorge né apprezza che la natura, è uomo tale, che innanzi a lui bisogna inchinare la fronte e, forse anche, le ginocchia.
A scrivere così del santo, se io sapessi scrivere, io sono certo che si finirebbe per condurre a credere anche gl’increduli. A furia di addentrarsi nell’animo di quel gigante in panni a comune misura, che fu don Bosco, si finirebbe per far nascere il dubbio che lui, pur essendo grandissimo, non poteva essere solo, a menare la vita che menava e a creare la vita che creava. Con lui doveva essere, con lui certamente era Iddio.
Partiti alla ricerca dell’uomo, soltanto dell’uomo, si incontrerebbe Iddio. Che è per l’appunto, quello per cui son nati i santi, che è quello che ha fatto Gesù stesso, il quale si fece uomo per condurci, anzi portarci a Dio».
Tra le antinomie positive della sua esistenza ci limitiamo a sottolinearne brevemente tre: la volontà indomita e flessibile; la bontà paterna ma esigente; la sensibilità profonda unita a grande fortezza di animo.
Volontà indomita ma flessibile
Don Bosco fu nel suo secolo, a giudizio di Huysmans, «un inaudito agente d’affari di Dio». È difficile non convenire su questo giudizio che esalta il talento organizzativo e realizzatore del Santo e, implicitamente, la sua volontà di ferro «indomita ed indomabile» (Pio XI). E il marchio di fabbrica della gente astigiana e langarola; ma lui l’aveva ereditata in misura non comune.
La portava, a così dire, scritta nel vigore della sua mente – «era dotato di sottilissima intelligenza», attesta Mons. Bertagna, sotto i lineamenti che palesavano la sua origine contadina – e dei suoi muscoli, nella innata capacità di azione, nella forte sicurezza di sé; una volontà che non sembrava conoscere la parola “impossibile”. L’aveva esercitata da piccolo nel rude lavoro dei campi, nel travolgere gli ostacoli che si opponevano ai suoi studi e alla sua vocazione; la eserciterà in grande da adulto. Portato all’azione, rifuggiva dalle astrazioni di scuola. «Monsignore – dirà un giorno al Vescovo di Casale Mons. Ferré che voleva trascinarlo in una disputa filosofica – io non ho tempo per occuparmi di queste cose perché il campo assegnatomi da Dio è non delle idee, ma delle opere e sebbene sia vero che dal retto pensare viene il retto operare, per rettamente operare basta il pensare e il sentire con il Papa».
Forte nel volere, era lento nel deliberare. Meditava a lungo i suoi progetti, li confrontava con la sua esperienza, domandava consiglio, interrogava il Signore nella preghiera assidua, ma quando aveva preso una decisione, più nessun ostacolo sembrava fermarlo. «Don Bosco diceva – non è un uomo da arrestarsi a mezza via quando ha messo mano ad un’impresa». E ancora: «Quando incontro una difficoltà faccio come chi camminando trova impedito il passo da un macigno. Cerco prima di allontanarlo, ma se non riesco o lo scavalco o gli giro intorno. Così, quando ho incominciato a fare una cosa, se mi si para innanzi un ostacolo, la sospendo, per mettere mano a un’altra; ma la tengo sempre d’occhio. Ed intanto le nespole maturano e le difficoltà si appianano».
L’essersi costantemente ispirato al “criterio del possibile” non significa che egli sia stato un pragmatista puro e che abbia fatto della pura prassi la legge della sua vita. La sua azione infatti è sempre vista alla luce di saldi principi soprannaturali e di meditate convinzioni religiose ed anche semplicemente razionali attinte, più che dai libri, dalla sua esperienza. Il suo schietto ottimismo – altro criterio di azione – affonda in regioni superiori. Sa e sente che Dio è con lui.
Volitivo al massimo don Bosco è però anche flessibile ed arrendevole, non solo nel perseguire “a piccoli passi” le mete che si prefigge, ma anche nell’esercizio stesso del suo volere e non volere. Il suo “sistema pedagogico” è un capolavoro di «ragionevolezza, amorevolezza, religiosità»; non c’è spazio per la volontà di impero, per la legge dell’inflessibilità. Sulla «freddezza del regolamento» devono prevalere le ragioni della bontà e del cuore.
L’educazione per don Bosco è infatti «cosa di cuore». Sapeva, per collaudata esperienza, che l’animo dei giovani «è una fortezza chiusa sempre al rigore ed all’asprezza»; se ne diventa padroni solo passando per le vie del cuore e del libero consenso.
In lui nulla di rude o di duro, come il suo temperamento volitivo potrebbe far pensare, bensì un comportamento paterno, amabile, capace di comprendere ed adattarsi ai gusti dei piccoli, per indurli ad amare le cose che amano i grandi, anche quando non piacciono.
Ma, al di là di quanto ha esplicito riferimento al sistema preventivo, c’è il vasto campo dell’ubbidienza che don Bosco non ha mai rifiutato né alle autorità religiose – ricorrendo in caso di disaccordo, in ciò che era contrario alla sua missione di fondatore, all’autorità superiore – né alle disposizioni legittime delle autorità civili. Temperamento di «resistenza o di assalto», come qualcuno lo ha definito, non era naturalmente portato alla sottomissione.
Canonizzandolo, la Chiesa ha proclamato che la sua ubbidienza è stata eroica, come dimostra, ad esempio, l’accettazione incondizionata della famosa “Concordia” disposta dalla S. Sede per appianare i malintesi che si trascinavano da anni tra lui e il suo Arcivescovo. Il documento imponeva a don Bosco pesanti e non motivate ritrattazioni. Quando lesse il testo del documento al suo Consiglio fu una costernazione generale: tutti, eccetto il Cagliero, lo consigliarono a prendere tempo, a far valere le sue buone ragioni. Ma Roma aveva parlato e per il Santo era causa finita: la “Concordia” fu accettata ed integralmente osservata.
Don Bosco più tardi confiderà che quell’ubbidienza gli era costata moltissimo. Il Sommo Pontefice aveva calcato la mano su di lui perché sapeva di poter contare sulla sua virtù. In don Bosco energia di volontà e flessibilità si complementavano.
Paternità amabile ed esigente
«Nessuna delle grandi realtà della vita umana – ha scritto R. Guardini – è balzata dal puro pensiero: tutte dal cuore e dal suo amore».
Non è possibile pensare a don Bosco e alla sua opera senza evocare la sua dolce bontà paterna, il suo grande “cuore oratoriano”, fondamento della sua pedagogia.
Non il cuore «monumentale dei filantropi – precisa don A. Caviglia – che è marmo e bronzo», ma il cuore in cui vibra la «bontà paterna e la tenerezza materna per i piccoli e per i poveri tra i piccoli». Diceva: «Mi fanno tanta pena questi poveri ragazzi, che se fosse possibile darei loro il mio cuore in tanti pezzi». Era la reale immagine di quella che S Gregorio di Nissa chiama la «filantropia di Dio».
La liturgia lo saluta «Padre e Maestro dei giovani»; maestro perché padre. Gli era caro questo nome perché racchiudeva una aspirazione e preoccupazione costante della sua vita: costruire una famiglia dei “senza famiglia” intorno al padre.
«Don Bosco più che una società – attesta don Filippo Rinaldi, suo terzo successore – intendeva formare una famiglia fondata quasi unicamente sulla paternità soave, amabile, vigilante del superiore e sull’affetto filiale, fraterno dei sudditi; anzi pur mantenendo il principio dell’autorità e della rispettiva sudditanza, non desiderava distinzioni, ma uguaglianza fra tutti in tutto».
Godeva nel sentirsi chiamare padre: «Chiamatemi sempre padre e sarò felice»; e realmente i primi salesiani, gli ex-allievi non lo chiameranno che così. Anche oggi è frequente il richiamo a don Bosco “Padre e Fondatore”. Il sentire la paternità e la famiglia era una caratteristica del suo tempo, che è anche tempo di paternalismo. La centralità del padre e il rispetto dei figli era insieme fatto di cultura e atto virtuoso.
Le ideologie del nostro tempo, che hanno messo pesanti ipoteche sulla figura paterna, sono oggi in difficoltà. Assistiamo infatti ad un riflusso verso il padre, non più figura da rimuovere, ma figura centrale e necessaria alla crescita armonica, equilibrata dei figli, sia pure con modalità di presenza e forme nuove, che sembrano chiamare in crisi i suoi classici ruoli.
Un padre più autorevole che autoritario, più vicino al modello che alla legge, più amico e fratello che personaggio. Da questo punto di vista don Bosco, per più di un verso, si rivela nostro contemporaneo:
tanto il suo modo di essere padre è in sintonia con le aspirazioni moderne. Lui che raccomandava ai suoi direttori: «Più che superiori siate padri, fratelli, amici». Senza dubbio il suo essere padre trova la sua più essenziale ragione di essere in quella paternità nella fede di cui parla spesso S. Paolo (lTs 2,7-8,10-11). Una paternità tuttavia alla quale non manca lo splendore umano.
Questo orfano di padre a due soli anni, ebbe del padre naturale eccettuata la carne e il sangue – si può dire tutto: l’amore tenero e forte verso i figli di adozione. la resistenza alle fatiche e ai dolori propria del padre, l’acuto senso di responsabilità del capo di famiglia e quella dedizione senza limiti che ha riscontro solo nell’eroismo materno. Tutta la sua vita lo prova; e lo provano affermazioni di una sincerità estrema come queste: «In qualunque giorno, in qualunque ora fate pure capitale sopra di me, ma specialmente nelle cose dell’anima. Per parte mia vi do tutto me stesso: sarà cosa meschina, ma quando vi do tutto vuol dire che non riservo nulla per me». Per i giovani in difficoltà «farò qualunque sacrificio, anche il mio sangue darei per salvarli».
Ai superiori e giovani del Collegio di Lanzo scrive: «La vostra lettera segnata da 200 mani amiche e carissime ha preso possesso di tutto questo cuore, cui nulla più è rimasto se non un vivo desiderio di amarvi nel Signore, di farvi del bene, salvare l’anima di tutti».
Espressione sublime di tenerezza paterna sono, tra l’altro, le due famose lettere da Roma, una ai giovani e l’altra ai salesiani, del 1884. C’è – si direbbe – quasi la sintesi del suo spirito, della sua esperienza pedagogica, della sua spiritualità, e c’è, soprattutto, il suo “cuore”. Riportiamo solo due frasi: «La mia lontananza da voi, il non vedervi, il non sentirvi, mi cagiona pena, quale voi non potete immaginare». «Chi vuole essere amato bisogna che faccia vedere che ama». In che modo? Con la familiarità, la dolcezza, la carità, la confidenza, la fiducia. Una bella testimonianza di questo suo «saper farsi amare» è resa dal suo giovane segretario, il chierico C. Viglietti.
La curiosità lo aveva spinto a leggere anche alcune lettere riservate; ne sentì rimorso e lo disse a don Bosco. Quale fu la reazione del Santo? «Mi strinse commosso al cuore, raccolse quante lettere aveva sul tavolo confidenziali o no, e mele diede tutte».
Di simili episodi, altrettanto affettuosi, che è poco definire materni, è intessuta la vita di don Bosco. Racconta don Ceria: «Questa è inedita: me la confidò il nonagenario don Francesia sul finire del 1929. Al tempo di Savio Domenico egli era un giovanissimo chierico. Un giorno rimase a letto con febbre. Nel pomeriggio don Bosco andò a trovarlo. Ne sollevò con la sua amabilità lo spirito; poi sul punto di venir via gli domandò se voleva qualche cosa. Rispose: “Vorrei bere dell’acqua fresca nella cazza dei muratori”. È quella specie di ramaiolo da acqua usato per la calce. C’erano i muratori in casa. Avrà riso don Bosco? No, come non rise quella volta che, interrogato il Savio se patisse qualche male, si sentì rispondere: “Anzi patisco un bene”. Don Bosco aveva capito che egli sentiva nostalgia della santità. E allora comprese che era la voglia di un febbricitante e che andava compatito. Che fece? Uscito dalla stanza, rientrò poco dopo, stringendo nelle giumelle delle mani la coppa di quel recipiente colmo di acqua e, fattosi da presso all’infermo, gliela accostò pian piano alle labbra. Bevve quegli a sazietà e quando vide il buon padre allontanarsi, pianse di tenerezza».
Nei primi tempi dell’Oratorio, quando don Bosco vedeva qualche giovane in preda a malanni ne soffriva al punto da domandare al Signore la grazia che il male trasmigrasse in lui: ciò che avvenne più volte. Un giorno si prese il mal di denti di un giovane che non ne poteva più. Ma durante la notte il dolore si fece così acuto che il Santo, alzatosi alle due del mattino, dovette andare alla ricerca di un dentista e farselo levare. Più tardi, per le gravi occupazioni, smise questa pratica che dimostra quanto egli facesse proprie le sofferenze, anche fisiche, dei suoi giovani.
Questa «bontà eretta a sistema» andava diritta al cuore dei giovani e lasciava, nei più sensibili, tracce indelebili.
Con verità S. Leonardo Murialdo ha potuto attestare: «La carità che don Bosco aveva verso i giovani faceva sì che essi pure lo riamassero di sincero affetto ed in tal grado che non si saprebbe trovare altro esempio da mettere al confronto».
Evocando il tempo passato con don Bosco, don Orione oserà dire: «Camminerei su carboni ardenti per vederlo ancora una volta per dirgli grazie».
Splendida la testimonianza di don Paolo Albera suo secondo successore: «Bisogna dire che don Bosco ci prediligeva in modo unico tutto suo: se ne provava il fascino irresistibile. Io mi sentivo come fatto prigioniero da una potenza affettiva che mi alimentava i pensieri, le parole e le azioni. Sentivo di essere amato in modo non mai provato prima, singolarmente, superiore a qualunque affetto. Ci avvolgeva tutti e interamente quasi in una atmosfera di contentezza e di felicità. Tutto in Lui aveva una potenza di attrazione, operava sui nostri cuori giovanili a mo’ di calamita a cui non era possibile sottrarsi e, anche se l’avessimo potuto, non l’avremmo fatto per tutto l’oro del mondo, tanto si era felici di questo singolarissimo ascendente sopra di noi, che in lui era la cosa più naturale senza studio e senza sforzo alcuno; e non poteva essere altrimenti, perché da ogni sua parola e atto emanava la santità dell’unione con Dio che è carità perfetta. Egli ci attirava a sé per la pieneua dell’amore soprannaturale che gli divampava in cuore. Da questa singolare attrazione scaturiva l’opera conquistatrice dei nostri cuori. In lui i molteplici doni naturali erano resi soprannaturali dalla santità della sua vita».
«Sempre padre», don Bosco non fu però mai un padre permissivo ed imbelle; non dimissionò mai dalle sue responsabilità. Le parti odiose le lasciava ai suoi collaboratori; tutti però sapevano che era intransigente e fermo, specialmente in fatto di furto, di bestemmia e di scandalo.
«Don Bosco – diceva – è il più gran bonomo che vi sia sulla terra: rovinate, rompete, fate birichinate, saprà compatirvi; ma non state a rovinare le anime, perché allora egli diventa inesorabile». Racconta il Card. Cagliero: «Durante il mio chiericato un giovanetto semplice e innocente era stato vittima di scandalo da parte di un adulto. Don Bosco non appena lo venne a sapere ne sentì un estremo dolore, si turbò e pianse alla mia presenza. Con paterna dolcezza riparò l’innocenza tradita, ma con pari fermezza procurò che fosse subito allontanato il colpevole».
Anche in simili casi non veniva però meno la sua grande paternità. Non castigava il colpevole ma lo chiamava a sé, gli faceva comprendere la gravità del male fatto; lo esortava a pentirsi, poi, sempre a malincuore, lo rimetteva ai parenti o ai benefattori; gli restava tuttavia ancora amico. La disobbedienza voluta, ostinata lo trovava particolarmente severo. Sciolse, su due piedi, nel 1859 la banda musicale, orgoglio dell’Oratorio, perché si era contravvenuto alle sue ripetute e ferme disposizioni; tutti i componenti, eccetto quattro, furono mandati via dalla casa.
Paterno, ma intransigente, anche con i suoi diretti collaboratori. Don Celestino Durando, Consigliere scolastico, contravvenendo ad un suo ordine, aveva cambiato il programma della cosiddetta “scuola di fuoco”; i più deboli si erano scoraggiati e ritirati. Don Bosco, dispiaciuto, manifestò il suo disappunto. «Se si fosse fatta l’obbedienza, questo sconcio non sarebbe avvenuto». L’interessato tentò di dare un chiarimento: «Non è questa la questione – interruppe recisamente don Bosco -; la questione è che eravamo intesi così e che l’obbedienza portava a fare così». Da chi era obbligato a maggior perfezione il Santo la esigeva.
Non finiremo mai di esplorare lo spessore della bontà paterna di don Bosco: ma se al suo interno non trovassimo unite, in positiva complementarità, dolcezza e fermezza, bontà e severità, non saremmo più di fronte a vera paternità.
Sensibile e forte
È la terza antinomia positiva sulla quale vogliamo richiamare l’attenzione. Don Bosco era un uomo di sensibilità squisita e profonda, capace di intensa vibrazione; un uomo anche facile alla commozione e all’intenerimento affettivo, capace di gioire e di soffrire con gli altri. Il suo medico conferma di essere stato colpito, nei colloqui intimi che aveva frequentemente con don Bosco, dalla sua «sensibilità estrema propria dei geni più sublimi» mai disgiunta dalla «eccezionale squisitezza della sensibilità morale». Una sensibilità innata che aveva in sé qualcosa di tenero e di materno attinto alla scuola di Mamma Margherita e di Maria SS.ma, presenza sempre attiva nella sua vita.