E se abolissimo i compiti a casa?
Ho sempre avuto un rapporto complicato con i compiti.
Da ragazzo li percepivo, ovviamente, come una sorta di castigo e comunque una barriera tra me e il pallone, che mi aspettava fedele in cortile. Ricordo pochissimi lavori assegnati che mi avessero effettivamente coinvolto e appassionato; tra questi, una ricerca di geografia, ma si trattava di un compito facoltativo. Però avevo sfogliato i fogli protocollo, infilati l’uno nell’altro a mo’ di libro, della ricerca di un ragazzo più grande, con la bella copertina in cui campeggiava il disegno (rigorosamente ricalcato e colorato con i pastelli) della “Russia”, anzi, dell’URSS, e decisi che anch’io avrei realizzato la mia ricerca. Scelsi lo stesso argomento, non per riciclare il materiale, ma per autentica competizione. Dovevo accostare alla sua la “mia” ricerca e guadagnarmi, magari, anch’io settanta punti o di più con il mitico don Agostino, che ci insegnava Geografia (ma anche la disciplina) con la sua canna di bambù. Ed ero, all’epoca, in seminario… Mi misi così a sfogliare vecchi libri scolastici, ammassati in certi cassetti in fondo allo studio e lasciati (che idea geniale!) al libero sciacallaggio degli studenti. Ritagliare immagini, riflettere sui titoli, ricomporre discorsi, confrontare cartine e tabelle: che metodo spontaneo e disordinato per stimolare competenze fondamentali! Ma quel compito spicca nella mia memoria come un caso davvero unico.
Anche da adulto, però, ho mantenuto un rapporto controverso con i compiti. Non sono sufficientemente metodico, mi rimprovero spesso, il più delle volte li improvviso, talvolta persino mi dimentico di assegnarne: per fortuna che rivedo le mie classi tutti i giorni e posso rimediare… Ma anche quando li medito con attenzione, non oso sperare che i ragazzi di oggi li accolgano in modo differente da come li accoglievo io all’epoca della guerra fredda.
Dunque, a conti fatti, i compiti a che servono? Forse questa è una delle poche questioni che in Italia genera un bipolarismo puro.
Il partito tradizionalista, gli USA protettori dei valori più nobili, può avanzare ragioni fin troppo evidenti. Riprendere le nozioni ascoltate in classe con un lavoro individuale è fondamentale. I processi di apprendimento necessitano di continui richiami, di applicazione, di esercizio. Chi garantirebbe buone prestazioni senza allenamenti costanti? E poi, vogliamo trascurare il valore educativo dell’impegno, dell’abitudine alla fatica, del senso di responsabilità? La scuola sta al ragazzo come il lavoro sta all’adulto. Con una differenza sostanziale: la reiterata comparsa di periodi di vacanza esageratamente lunghi, che spalancano un soffio di libertà nei giovani tanto forte da spazzare via in un batter d’occhio qualsiasi nozione faticosamente inculcata, ripetuta ed esercitata per mesi e mesi. Motivo in più per salvare il salvabile con una cospicua dose di… compiti. Senza trascurare un altro fattore: non ci fossero questi benedetti esercizi assegnati dalle autorità preposte, come potrebbero i poveri genitori d’oggidì tenere a bada questi scalmanati, che già adesso spergiurano di non aver mai nulla da fare?
C’è però anche il fronte dei rivoluzionari, l’URSS della liberazione delle classi subalterne. È inutile fingere di non vederli. Impugnano quella circolare del ’69, riesumata un paio di mesi fa, che vietava espressamente la somministrazione di compiti per il lunedì. La logica si intuisce: quando l’operaio smette di lavorare, ha diritto a un fine settimana di riposo e di qualche svago: perché questo principio non si applica anche per lo studente? E oggi i tempi sono cambiati, per cui i ragazzi dovrebbero, sempre sul modello lavorativo, terminare già a scuola i propri doveri. Non si pretenderà mica che siano i genitori a seguirli nell’esecuzione di esercizi sempre più complessi e… avulsi dalla realtà, ovvero relativi ai programmi e alle logiche autoreferenziali del mondo della scuola. Siano i tecnici a occuparsene. E poi i processi con cui un cervello apprende non sono così lineari, per cui dopo una certa soglia di esercizi ben fatti, scatta la scintilla del genio. Spesso, la lampadina si accende improvvisamente, si recuperano d’incanto nozioni subito dimenticate malgrado la meccanica ripetizione degli esercizi, perché si comprende l’utilità di una conoscenza e la sua applicazione in un contesto emotivamente rilevante. I compiti di norma generano solo stress, riversano nuove tensioni sul debole tessuto della famiglia. Quando tornano a casa, quindi, i giovani dovrebbero potersi tuffare nel reale, sguazzare nei mille flutti di internet, godersi la loro età. Tra l’altro, oggi l’intrattenimento funziona talvolta persino meglio della scuola, come occasione per acculturarsi. Diciamocelo francamente, in classe preparano cartelloni buoni per addobbare per qualche mese le pareti in cui stanno reclusi, mentre a casa progettano siti, chattano con persone che vivono dall’altra parte del pianeta oppure condividono esperienze di svago intelligente con la famiglia (un viaggio, la partecipazione a qualche spettacolo o anche soltanto la visione di un buon film).
Non è esattamente così, si obietterà. E via con la demonizzazione della tecnologia e con i dati sulla disgregazione dei rapporti familiari, con le visioni del nostro prossimo futuro come una sorta di nuovo medioevo. Ma non è il caso di uscire dal seminato. Limitiamoci a constatare che anche pescando un video da youtube o cercando un’immagine tramite Google o confrontando i contenuti di un paio di siti, si compie quella stessa avventura che aveva condotto me ad autoassegnarmi un compito, vissuto come esercizio davvero creativo. Magari i giovani di oggi non sapranno più colorare bene con i pastelli, ma impareranno presto a montare una sequenza di immagini e di suoni anche sorprendentemente efficace. Poi, per fortuna c’è la scuola, che difende esperienze alternative, che impone ancora di prendere in mano le forbici per ritagliare con accuratezza una sagoma o pretende di sviscerare gli infiniti risvolti celati dentro una manciata di versi, riletti con pazienza più e più volte, mentre si sta concentrati e scollegati da tutto ciò che ci circonda.
Insomma, lo si è capito: la guerra fredda si è conclusa da decenni e la ragione non sta mai solo da una parte, con buona pace del nostro finto bipolarismo.
E quindi, per quanto riguarda i compiti? Eh, bisognerebbe distinguere tutte le variabili del caso, per dire qualcosa di appena sensato. Vedi, in quella tal materia, l’esercitazione costante è fondamentale. In quest’altra, può bastare qualche lavoro più rado, purché altamente significativo. Nell’altra ancora, conta solo studiare con continuità. Ma siamo ancora stati troppo generici, parlando di materie. Bisognerebbe discutere sul metro delle unità di apprendimento. Così, in determinati periodi a una disciplina serve una rielaborazione personale costante, ma poi, cambiando argomento, si passerà a compiti più creativi, gestiti con tempistiche diverse. E il bello è che sarà pur ora di uscire da una visione frammentaria della persona e del percorso di crescita umana e intellettiva, per cui l’ora di Scienze o l’ora Inglese o l’ora di Geografia sarebbero pezzi di un puzzle che si va componendo, non universi paralleli senza alcun rapporto. Fuori di metafora: come i “contenuti” di tutte le materie dovrebbero essere stati pensati e progettati armonicamente, così anche i compiti andrebbero somministrati con la stessa saggezza. Quindi, se per Matematica viene richiesto a un alunno di eseguire 150 espressioni, forse non è il caso che in Italiano, nello stesso frangente, il medesimo alunno abbia altrettante frasi da analizzare in grammatica.
La panacea scolastica della nostra epoca è poi la personalizzazione. Il fulcro dell’avventura della conoscenza è il singolo cervello che si attiva e diventa protagonista. Perciò, che senso ha somministrare compiti uguali per tutti? C’è chi è già sufficientemente allenato in quella specifica abilità — e l’insegnante lo sa bene — per cui potrebbe affrontare prove differenti o godersi i propri svaghi. Guardate come si allenano i professionisti in qualsiasi sport: a un certo punto, gli esercizi vengono differenziati per gruppi o addirittura calibrati sulle necessità individuali, soprattutto nel caso di recupero da qualche infortunio…
Qualcuno se la sente di affermare che tali osservazioni non contengono la loro parte di saggezza? Direi che mi merito proprio cento punti, come per quella mitica ricerca di geografia. Però, se queste sono le conclusioni provvisorie a cui giungere, non resta che porsi l’ultimo problema. Quanto dovrebbe lavorare in più un insegnante per preparare e correggere compiti così giusti e santi, concertati con tutti gli altri colleghi alla luce di una superna intelligenza collettiva?
Caspita, ero ragazzo e sognavo, un giorno, di stare finalmente dall’altra parte e assegnare io, ai miei alunni, i castighi che a loro erano dovuti, per la semplice colpa di essere giovani e di non di capire quanto un giorno mi avrebbero ringraziato per quelle tediose ore perse a vergare quaderni con la testa perennemente altrove. Oggi, che sono davvero sulla cattedra, finisco invece per osservare i ragazzi che scappano dall’aula verso il cortile, rincorrendo il pallone, mentre fisso nuovi impegni per me.
C’è qualcosa che non va. Ho accumulato un sacco di punti, da qualche parte, ma non ho ancora capito a che cosa servano, se sono rimasti sempre lì, esclusi da ogni valutazione.