Dal Don Bosco alla Bosnia, in aiuto dei profughi
Lo studente Edoardo Ticozzelli, insieme a don Alessandro Borsello, ha accompagnato Mario Metti nella nuova missione di solidarietà per i profughi di Bihac
Mario Metti, presidente dell’associazione Mamre, era venuto al Don Bosco, lunedì 22 ottobre, per spiegare ai ragazzi la situazione disperata delle migliaia di profughi accampati, al freddo e spesso senza indumenti adeguati, al confine tra Bosnia e Croazia, nelle cittadine di Bihac e Velika Kladusa. Aveva anche lanciato un appello a chi avesse voluto trasformare la solidarietà in un gesto concreto. L’appello è stato raccolto e tra il 1 e il 4 novembre, Edoardo Ticozzelli, studente del quinto anno del Liceo Economico Sociale Don Bosco, ha partecipato, insieme a don Alessandro Borsello, catechista dei Licei, alla spedizione in Bosnia organizzata da Metti per portare aiuti in Bosnia.
Ascoltiamo il racconto di quei giorni dalla voce di don Alessandro e di Edoardo.
Don Alessandro: “Hai per caso visto Edoardo? Sono venuto a chiedere e lui e a te se volete venire con noi a Bihać. Partiamo fra sei giorni, nel ponte dei Santi?”
E’ venerdì sera quando Mario Metti passa al Don Bosco e ci propone di seguirlo in Bosnia per portare indumenti e sacchi a pelo raccolti nei giorni precedenti per il campo profughi. Per lui e gli altri volontari è il terzo viaggio in un mese; per noi il primo contatto con una realtà che conosciamo solo per sentito dire. Decidiamo di accettare la sfida.
Partiamo alle 6 del mattino della festa dei Santi: con noi altri volontari di Borgomanero, Arona, Grignasco. Tre furgoni carichi e una macchina.
A Bihac ci rechiamo al Dom, una struttura per studenti costruita dal regime jugoslavo negli anni ‘80 e mai finita, diventata accampamento provvisorio per i profughi siriani e afgani che attendono di poter entrare in Europa. Mi colpisce un cartello affisso all’ingresso con la mappa della zona: spicca la scritta “warning” e le macchie rosse che indicano i campi minati (tantissimi). I migranti chiamano il passaggio delle frontiera “the game” (il gioco): qui però non è come ai campi scuola, non si gioca a “Tattica” o a “Stratego”; non si deve entrare in base a prendere la bandiera evitando chi ha il ruolo della “mina”; chi perde non torna in base a prendere un nuovo cartellino, ma viene fermato e spesso picchiato dai militari di frontiera, restando senza telefono e senza scarpe.
Ripartiamo per casa con occhi e cuori pieni di emozioni, consapevoli che le nostre cinque ore di attesa alla frontiera croata e slovena sono un peso leggero a fronte del “game” che devono affrontare i tanti volti che abbiamo incontrato. Per noi è davvero solo un gioco; per loro è il “gioco della vita”.
Edoardo: La Bosnia è un realtà sorprendente, perché molti, fra i quali anche me e Don Alessandro, faticano a immaginare un Paese che, come il nostro, sta affrontando il fenomeno della migrazione clandestina dei profughi con esiti e complicazioni tanto diversi, che dipendono da questioni politiche sia interne sia esterne della Bosnia.
I migranti in Bosnia non vengono molto aiutati dalla Stato, ma vengono aiutati in grandissima parte dalle varie associazioni e istituzioni internazionali. La Bosnia è un Paese che ancora vive il peso della guerra passata e dell’odio etnico, dunque il problema della gestione del campo profughi non è considerato importante per lo Stato bosniaco. L’esperienza che abbiamo vissuto è stata stimolante, ci ha fatto riflettere sulle paure dell’uomo e dei suoi desideri.
Un modo concreto e non retorico per vivere l’ottobre missionario a cui la scuola sta dedicando le sue riflessioni in questo periodo.